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Asvig Vartija è un membro della Eurus Septima ed un ex-generale traditore dell'Impero Handorien.

Descrizione

Asvig è un uomo sulla cinquantina dal carattere rigido e marziale. Il suo aspetto non tradisce affatto il temperamento glaciale delle terre nordiche a cui appartiene.

Storia

Origini

Il mio nome era Asvig Luther Kamedor. A otto anni era stato deciso che avrei sposato Airina Handorien, una lontana cugina di Vera. A dodici anni sono stato spedito in accademia, dove mi hanno insegnato tutto: a combattere, a sopravvivere, a vincere, a respirare. La guerra era già in corso da parecchio tempo quando finii sul campo di battaglia per la prima volta; ero bravo, e i miei superiori me ne davano atto. Uccisi molta gente, e feci carriera. Imparai a comandare, a dirigere gli uomini, a farli combattere al loro meglio, a dir loro come potersi migliorare. 
Divenni sergente, luogotenente, poi capitano. La guerra con il nord finì ma le rappresaglie continuavano. Nel frattempo avevo sposato una sconosciuta, e avevo avuto da lei una figlia. Miridia. La più bella bambina che l'ovest-continente avesse mai visto.
Venni rimandato al nord a placare le rivolte. Guidavo uomini nel freddo, nella fame e nel sangue. Avevamo la fama di aver catturato più uomini noi che altre tre compagnie messe insieme, finché improvvisamente gli ordini cambiarono. Ne avevamo catturato troppi. Le prigioni del regno erano piene di zotici del nord e i generali iniziavano a temere una ribellione nelle carceri, così mi venne imposto: nessun prigioniero. Eseguii con ferma risolutezza. Bruciai villaggi, uccisi innocenti. Tutto in nome dell'impero. 
Un giorno mi svegliai, uscii dalla mia tenda e proprio fuori l'uscio trovai un neonato. Non aveva più di qualche mese di vita. Era sgozzato, freddo come il ghiaccio. Pelle violacea, piena di ematomi. Una madre l'aveva deposto nella notte di fronte la mia tenda, uccidendolo lei stessa. Alcuni dei miei uomini mi spiegarono che questo è quello che facevano i popoli del nord quando una divinità della morte voleva spazzar via la loro civiltà. Offrivano spontaneamente le proprie vite per placare le sofferenze.
Lì capii che avevo vinto tutte le battaglie, ma avevo perso l'unica cosa che mi teneva in vita: la mia umanità. Non ero più un essere umano, per i miei nemici, ma un Dio della Morte. Presi i miei uomini e li riportai indietro abbandonando il fronte in barba agli ordini reali.
Quando tornai, ad aspettarmi c'era un'accusa di diserzione. Mi dissero che avrebbero lasciato cadere le accuse se fossi ripartito immediatamente, ma rifiutai. Dissi loro che quello che stavano facendo era sbagliato, e che avrei rivelato al popolo intero le barbarie compiute dall'esercito in nome dell'espansionismo. Non credevo che sarebbero arrivati a lei, pur di farmi stare zitto. Morì nel sonno, per fortuna. Una dose di polvere di loto nero sciolta nel latte. Dissero che ero io l'unico ad avere accesso a quella casa, dissero che ero io il mostro tornato dalla guerra che ora era impazzito.
Ma non sapevano quanto la mia disperazione potesse abbattersi su di loro. Decisi che la verità non bastava più, dovevo fare l'unica cosa sana di mente. Finsi di costituirmi, mi mandarono nella prigione reale, e lì bastò una distrazione della guardia che mi accompagnava: la strangolai a morte, le rubai le chiavi e liberai un'ala intera della prigione. Cinquanta schiavi al mio comando, che ne liberarono altri quattrocento. Ne morirono tanti, quel giorno, ma riuscimmo a rubare una galea e a salpare verso nord. Loro sapevano navigare, io sapevo le tattiche dell'impero. 
La nostra fuga si trasformò ben presto in una ritirata tattica. I popoli del nord pensavano che il Dio della Morte, pentito della sua collera, volesse riportare equilibrio uccidendo quanta più gente possibile nell'Impero che aveva fatto loro tutto questo. Non li fermai. Non dissi loro che ero solo un uomo arrabbiato. Li convinsi che era arrivato il momento di sterminarli tutti. E così fecero.
La guerra sarebbe durata anni e l'impero aveva chiamato alcuni Pionieri a combattere al loro fianco. Dopo qualche mese, iniziai a vedere chiaramente i problemi delle persone che mi circondavano; la disorganizzazione, l'inferiorità numerica e di armamenti. Non avremmo mai potuto nemmeno sperare di vincere senza un intervento esterno. Ma chi mai avrebbe potuto avere a cuore la nostra causa? La mia causa, la mia vendetta?
Nero Gomez.
L'assalto alla ammiraglia che trasportava quel carico d'oro per l'impero, dieci anni fa, in cui morì Erodes Handorien, il padre di Vera. Nero dice di aver distribuito quei lingotti alla ciurma, ma non è andata così. Solo un quarto del carico venne spartito sulla Jocasta, ma il resto arrivò al porto del villaggio di Snowin, dove eravamo accampati, su una goletta senza equipaggio. A bordo trovammo soltanto l'oro, una candela consumata ed una corda bruciata.
Con quell'oro comprammo armamenti, pozioni, viveri dalla nazione di Avernus. Addestrai gli uomini, insegnai loro i punti deboli dell'impero e la nostra avanzata era inesorabile. Tutto quello che ci avevano fatto, glielo rendevamo tre volte tanto. Arrivammo a pochi passi dalla capitale, in un villaggio di nome Reinvolk. Nessun prigioniero.
Eppure, il mio vuoto non si colmava. Una settimana prima della partenza per la capitale, uscii dalla mia tenda. Una donna handoriana era arrivata all'accampamento. Aveva i piedi dilaniati dalle pietre e portava con sé un fanciullo di circa cinque o sei anni. Un taglio netto sulla gola lo aveva ucciso qualche giorno prima, il cadavere aveva iniziato a odorare di marcio, eppure la madre non voleva disfarsene. Mi implorò di riportarlo in vita, visto che io ero il Dio della Morte. 
Lì mi resi conto, per la seconda volta, che avevo sbagliato. Cambiare fazione non mi avrebbe dato ciò che volevo. Non mi avrebbe ridato Miridia, non avrebbe posto fine ai massacri. Anzi, stavo percorrendo la strada opposta a quello che pensavo di volere. A quel punto non vidi altra scelta se non recarmi personalmente in capitale. Mi consegnai all'impero in cambio di un trattato di pace che riportava lo status quo nelle terre, e mi tennero imprigionato per circa sei anni.
Lo incontrai lì, nelle segrete. Era il diciottesimo compleanno di Miridia e io...mi sentivo sporco. Immensamente, irrimediabilmente sporco. Usai le lenzuola per annodare un cappio attorno ad una sporgenza nel soffitto. Stavo pregando Telchur, dio dei venti del nord, di portarmi con sé quando tutto quello sarebbe finito. Ero pronto a morire, quando la mia cella si aprì.
Una guardia insolita, con una pipa in bocca, che presto si tolse l'elmo. Avrà avuto sì e no una ventina d'anni. Lo riconobbi una dozzina di minuti dopo, quando mi chiese che fine aveva fatto l'oro che per caso era andato perduto durante l'assalto. Gli chiesi il perché, ma fu evasivo. Intuii che forse era per puro divertimento, o che l'impero gli aveva fatto qualche torto di cui non voleva mettermi al corrente. Pensai addirittura che fosse per una sorta di rispetto nei miei confronti, per ciò che stavo facendo con quel popolo. Non lo sapremo mai. Ma quel giorno mi disse che Istus, la dea del Destino, aveva grandi piani per tutti e non dimenticava nessuno. Mi lasciò una fiaschetta, e poi se ne andò. Pensai che fosse liquore per rendere più leggero il trapasso, ma quando assaggiai...era latte. Lo bevvi tutto, e lo vomitai tutta la notte. 
Il giorno successivo, non avevo più voglia di andarmene. Volevo vedere di cosa parlava Nero quando venne da me.
Così sono arrivato qui, in catene, quando Kilash ha stipulato l'accordo con l'impero. Non so se Nero abbia in qualche modo influenzato lo scambio, non riesco a immaginare nemmeno come. Ma sappi che nutro grande rispetto per lui. C'è dell'onestà in mezzo a tutta quella...ecletticità.
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